L’HASHTAG – #abbiamounportiere

diegolopez

 

 

 

 

 

Oltre trenta ore sono trascorse da questo inusitato Rinascimento Rossonero, così improvviso e sorprendente per fluidità e continuità di gioco da essere sconcertante, forse il miglior Milan della storia di ComunqueMilan (mettiamoci dentro almeno Milan-Barcellona 2-0, và). Là dove l’occhio cadeva sconsolato su ruderi e rottami, ex atleti dirottati sulle fasce come Armero e Bonera, fioccavano cross addirittura pennellati, che trovavano in area un terminale in grado di trasformarli in gol. C’era un Mexes concentrato, un Montolivo cattivo, un De Jong pugnace temporeggiatore, persino un Poli che s’inceppava nella corsa forsennata solo poche volte. La notizia più bella era però quella che apriva la formazione: sì, #abbiamounportiere.

La gente allo stadio lo chiama “Diego” o addirittura Diegone, è uno di casa come il suo omonimo Abatantuono, è un omone gentile e compassato come gli hidalgos spagnoli che aspetta sempre l’ultima frazione di secondo per liberarsi del pallone, prima che sopraggiunga l’istante fatale in cui il rinvio andrebbe a sbatacchiare contro l’attaccante avversario. Ma i suoi compagni si fidano e la toccano sempre indietro, e noi con loro, perché in fondo al cuore rimaniamo provinciali e casciavìt, e se nel curriculum Diego Lopez ci ha scritto “Real Madrid”, noi si ha persino qualche pudore a dargli del tu. In quanto uomo d’altri tempi, concede ben poco allo spettacolo: è forse goffo ma essenziale sulle respinte, non è esplosivo come Perin o teatrale come Neuer, che a furia di cercare d’impressionare i giurati del Pallone d’Oro si metterà a fare rabone sulla linea di porta. Ma comanda il reparto come Abbiati non si è mai sognato di fare neanche nei suoi anni più splendenti, limitandosi a spazzare l’area con le sue uscite basse kamikaze che erano il pezzo migliore del suo repertorio. Diegone blocca sovente e respinge di rado, batte palmo a palmo il perimetro dell’area di rigore, partecipa, sperimenta, parla e ascolta. A dieci minuti dalla fine, l’epifania: tiraccio di Albiol da 25 metri, Lopez si butta a sinistra, ma la palla incoccia su Duvan Zapata e cambia bruscamente traiettoria: non accelera, ma sterza a destra. A questo punto Abbiati sarebbe già stato irrimediabilmente spiaggiato, impossibilitato a rialzarsi causa infiammazione del nervo sciatico, e si sarebbe limitato a pregare. Lopez si ritira su e balza dall’altra parte, accompagnando la palla in fallo di fondo.

“Normalità” è una brutta parola, ma quanto diventa bella quando s’inizia a passarne di tutti i colori. E chiaramente non è finita, perché – per fare un esempio – non è normalità milanista soffrire a 10′ dalla fine quando sei avanti 2-0 contro una squadra tanto disperata da aver appena buttato dentro Gargano. Da due anni viviamo in un clima talmente disabituato alla normalità del Milan che a ogni conferenza stampa Inzaghi si sente in dovere di ribadire l’ovvio: “La squadra dimostra sempre una gran voglia di vincere”. Frase che manda in bestia, perché neanche in terza categoria esistono squadre che abbiano voglia di perdere. La normalità non si conquista, non è una app da installare sull’iPad a un euro e 99, non si decide alzandosi presto la mattina; è qualcosa che succede inconsapevolmente ma inesorabilmente, un’arietta fresca che torna senza fare rumore. Difficilmente Diego Lopez sarà uno dei tre finalisti al Pallone d’Oro, raramente lo vedremo andare via in tunnel all’Higuain di turno. Ma che bisogno ne abbiamo, per avvicinarci a quel giorno in cui scopriremo, con una puntina di meraviglia, che due più due fa di nuovo quattro.

Pubblicato da Giuseppe Pastore

Pugliese, classe 1985, milanista di ferro. Prima partita di cui ho memoria: Milan-Barcellona 4-0. Ammetterete che poteva andarmi peggio. Qui sotto i miei contatti.

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